Art. 570 Violazione degli obblighi di assistenza familiare
Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, alla tutela legale, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire duecentomila a due milioni.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma. Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un’altra disposizione di legge.
L’art. 570 c.p. prevede due diverse autonome fattispecie, la prima relativa alla violazione degli obblighi di assistenza morale, la seconda alla mancata assistenza materiale.
Peraltro le diverse ipotesi (distinte tra loro e comprendenti una pluralità di reati distinti e una varietà di fatti delittuosi) si riferiscono ad un unico titolo di reato, e cioè l’inosservanza cosciente e volontaria dei vari obblighi di assistenza familiare scaturenti dal vincolo matrimoniale e dal rapporto di parentela: in altri termini, tali ipotesi rappresentano lo stesso reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.
Perciò l’agente che compie fatti previsti sia dal 1° che dal 2° comma, commette un solo reato ed è punibile con la sanzione prevista per la più grave forma dell’unico reato.
I fatti previsti nel 1° comma non costituiscono neppure una circostanza aggravante, rispetto all’ipotesi prevista dal 2° comma.
PRIMO COMMA DELL’ART. 570 c.p.
Il reato di violazione degli obblighi di assistenza
L’evento dannoso
L’evento dannoso consiste nella sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori ed alla qualità di coniuge. Il semplice abbandono del domicilio domestico non integra tale reato se non è accompagnato dalla inosservanza degli obblighi di assistenza morale e materiale. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, il contenuto degli obblighi di assistenza coniugale non si esaurisce in esigenze di carattere materiale ed economico, ma tocca anche la sfera degli interessi morali e di solidarietà, che stanno alla base del rapporto di convivenza coniugale (Cass. pen., 90620/85).
Pertanto, risponde di tale delitto anche chi, allontanatosi dal domicilio familiare, si sia disinteressato totalmente della moglie e dei figli, non rispettando gli obblighi di assistenza morale inerenti alla sua qualità di coniuge e padre, anche se abbia provveduto a corrispondere i mezzi di sussistenza.
L’ingiustificato allontanamento dal domicilio domestico
Per rispondere del delitto di cui all’art. 570, primo comma, non è sufficiente il solo fatto materiale della sottrazione alla coabitazione, ma è necessario che l’allontanamento sia ingiustificato e costituisca deliberatamente l’inadempimento degli obblighi di assistenza (Cass. pen., 90620/85). Ricordiamo che gli artt. 145 e 146 c.c., così come modificati dalla l. 11 maggio 1975 n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia, consentono ai coniugi di scegliere una residenza diversa: in mancanza di comune domicilio domestico, manca l’elemento materiale del reato. Manca altresì detto elemento materiale quando sussiste una giusta causa di allontanamento del coniuge: ricordiamo che l’art. 146 c.c. prevede espressamente che la proposizione di una domanda di separazione personale (o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio) costituisce giusta causa di allontanamento. In tale ipotesi cessa l’obbligo di permanere nella casa familiare e di conseguenza vengono a cessare gli obblighi di assistenza penalmente sanzionati dall’art. 570 comma 1°: è la stessa legge a giustificare l’allontanamento.
L’allontanamento deve essere ritenuto legittimo anche in caso di sussistenza di ragioni di carattere interpersonale che (indipendentemente dalla proposizione di un ricorso di separazione) non consentano la prosecuzione della vita in comune (Cass. pen., 145989/80 e 159662/83), in quanto le ipotesi espressamente considerate dall’art. 146 c.c. non sono tassative, e ben si possono aggiungere le formule della «intollerabilità della prosecuzione della convivenza» e del «grave pregiudizio per l’educazione della prole» previste nell’art. 151 c.c. (Cass. pen., 208987/95). In particolare, se l’imputato sia stato costretto ad abbandonare il domicilio per la necessità (effettiva o meramente supposta), di salvare sè o altri dal pericolo di un danno grave alla persona, deve essere assolto in quanto non punibile per avere egli agito in stato di necessità (effettiva o putativa).
Il concetto di assistenza
Il concetto di assistenza deve essere definito dal giudice, in quanto la norma non chiarisce detto concetto: peraltro nell’espressione, pur formulata genericamente non rientra ogni comportamento che possa comunque turbare la pace e la tranquillità della famiglia.
La norma penale tiene conto del dovere, stabilito dalla norma civile, di fornire all’altro coniuge, in tutti i casi della vita, concreta ed adeguata assistenza fisica, intellettuale, morale ed affettiva. Pertanto la condotta penalmente rilevante deve aver necessariamente prodotto una violazione degli obblighi di assistenza (Cass. pen., 159661/83).
Non è quindi sufficiente una condotta contraria all’ordine o alla morale della famiglia, né l’adulterio (ossia la violazione dell’obbligo di fedeltà tra i coniugi, art. 143 c.c., che si estrinseca nel dovere di astenersi da rapporti amorosi con o senza contatti sessuali – come l’adulterio puramente sentimentale – con persona diversa dall’altro coniuge).
Il soggetto passivo
Soggetto passivo, secondo il testo della norma, è solo il figlio o il coniuge.
SECONDO COMMA DELL’ART. 570 c.p.
L’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza
La sussistenza del reato
Ai fini della sussistenza di tale reato devono concorrere due condizioni:
1) la disponibilità di risorse sufficienti da parte dell’obbligato,
2) lo stato di effettivo bisogno del soggetto passivo (Cass. pen., 165984/84).
L’accertamento del primo presupposto non può essere meno rigoroso rispetto a quello del secondo, poichè solo la prova certa della presenza di tale disponibilità, o del fatto che essa sia venuta meno per effetto di una volontaria determinazione del colpevole, può giustificare un’affermazione di responsabilità (Cass. pen., 184257/89).
Il concetto dei mezzi di sussistenza
Il concetto di mezzi di sussistenza comprende il soddisfacimento di tutte le esigenze (vestiti, scarpe, libri, mezzi di trasporto ecc.) da valutarsi in relazione alle reali capacità economiche della persona obbligata (Cass. pen., 146490/80) e non è quindi limitato al solo vitto e alloggio.
I mezzi di sussistenza e l’assegno di mantenimento
I “mezzi di sussistenza” sono del tutto indipendenti dalla valutazione del giudice civile, quando stabilisce un assegno di mantenimento (alla moglie o ai figli) oppure un assegno divorzile (alla ex moglie divorziata).
La nozione penalistica dei mezzi di sussistenza è limitata alla soddisfazione delle esigenze elementari di vita, a quanto insomma è necessario per la sopravvivenza, come vitto, medicinali ed alloggio, v. Cass. pen., 162996/84, da considerare nel momento storico in cui il fatto è commesso, v. Cass. pen., 157487/28. Peraltro, per costante giurisprudenza (Cass. pen., 11503/80), i mezzi di sussistenza non sono limitati al solo vitto e alloggio ma comprendono anche il soddisfacimento di altre esigenze, come vestiti, libri e mezzi di trasporto: tale nozione dei mezzi di sussistenza ha comunque un contenuto ristretto rispetto alla corrispondente nozione civilistica di mantenimento, fondata sulla valutazione e comparazione delle condizioni socio economiche dei coniugi.
L’ipotesi di reato prevista dal n. 2 del secondo comma dell’art. 570 c.p., pur avendo come presupposto l’esistenza di un’obbligazione alimentare, tuttavia non costituisce una mera presa d’atto dell’inadempimento del provvedimento del giudice civile, che ha determinato l’entità dell’obbligazione.
Pertanto quando il coniuge obbligato non provvede (o provvede parzialmente) alla corresponsione dell’assegno alimentare, il giudice penale deve indagare se, per effetto di tale comportamento, siano venuti a mancare ai beneficiari i mezzi di sussistenza (Cass. pen., 162995/84): è infatti compito del giudice penale accertare lo stato di bisogno dell’avente diritto ai mezzi di sussistenza (Cass. pen., 161331/83 e 163476/84).
Ai fini della configurabilità del delitto di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, il provvedimento del giudice civile (che ha fissato l’obbligo del versamento di un assegno e la sua misura), dimostrando la sussistenza di uno stato di bisogno dei beneficiari, costituisce solamente il punto di partenza per l’accertamento del reato (Cass. pen., 182094/89): di conseguenza, non sempre integra gli estremi di detto reato il pagamento di una somma inferiore a quella stabilita dal giudice della separazione: infatti l’autoriduzione dell’assegno di mantenimento fissato dal giudice civile, può o meno coincidere con la violazione di prestare i mezzi di sussistenza (Cass. pen., 153224/81).
Invece nell’ipotesi in cui vengano corrisposte somme irrisorie (o addirittura non venga corrisposta alcuna somma) è evidente che l’obbligato non sostiene le necessità più elementari degli aventi diritto agli alimenti e, quindi, commette violazione degli obblighi di assistenza familiare (Cass. pen., 188948/91).
Con la recente sentenza n. 17843/08, la Corte di Cassazione, confermando la sentenza della corte di Appello del 6 Marzo 2007, ha statuito la configurabilità della fattispecie di reato di cui all’art. 570, comma 2 c.p., anche in caso di separazione di fatto, in quanto sussiste un obbligo morale e giuridico di contribuire al mantenimento dei figli gravante sui genitori.
I soggetti
Al contrario del primo comma, che prevede come persone offese esclusivamente il figlio o il coniuge, come soggetto passivo del reato previsto al n. 2 del secondo comma dell’art. 570 c.p. (e precisamente, secondo il testo della norma, i discendenti di età minore o inabili al lavoro, gli ascendenti o il coniuge non legalmente separato per propria colpa) si prevede una estesa gamma di persone offese, con l’evidente scopo di assicurare l’osservanza del principio di solidarietà familiare.
Vi è concorso formale di reati quando più familiari sono beneficiari dell’assistenza e quindi persone offese, in quanto private dei mezzi di sussistenza.
In tal caso, la pena va aumentata secondo i criteri di cui all’ art. 81 c.p. (Cass. pen., 36070/02).
Lo stato di bisogno del minore
Gli effetti della separazione personale e del divorzio sono sempre circoscritti ai soli coniugi e non riguardano in alcun modo i figli, i quali conservano integri i loro diritti (Cass. pen., 145513/80).
Lo scioglimento del matrimonio, infatti, non incidendo sullo status di genitore e di figli, non fa venir meno la tutela penale dell’obbligo di assistenza ai figli.
Lo stato di bisogno di un minore (che per definizione non è in grado di procacciarsi un reddito proprio) è un dato di fatto incontestabile, per cui entrambi i genitori sono tenuti a provvedere in proposito (Cass. pen. 169513/85). L’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza ai figli minori grava su entrambi i genitori e sussiste anche dopo la sentenza di divorzio, indipendentemente dal provvedimento giudiziale che quantifichi la misura dell’assegno di mantenimento (Cass. pen., 171078/85 e 210519/98).
Lo stato di bisogno del beneficiario
Il reato è escluso quando il soggetto passivo non versi in stato di bisogno, sempre che quest’ultimo possa provvedere da solo al proprio sostentamento (Cass. pen., 168857/85).
Peraltro lo stato di bisogno del coniuge beneficiario non è escluso dal fatto che questi disponga di altri introiti non idonei a soddisfare le esigenze minime della vita, come anche che debba lavorare per vivere o che goda di una pensione sociale (Cass. pen., 164267/83), che non gli consenta di superare lo stato di bisogno, o che svolga saltuariamente un lavoro retribuito, se dalla attività lavorativa egli non riesca a trarre quanto occorre per far fronte con dignità alle elementari necessità di vita (Cass. pen., 198531/94). Insomma, il soggetto passivo non si deve trovare in stato di totale indigenza, essendo sufficiente che sia privo di mezzi economici sufficienti a provvedere alle esigenze della vita.
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