Il Principio di Eguaglianza

 

Il  Principio di Eguaglianza costituisce la base della democrazia, dunque la sua affermazione oltre a completare e qualificare la garanzia dei diritti fondamentali rende ragione del regime politico che dovrebbe esistere in Italia. L’eguaglianza, dunque è un principio fondamentale della Costituzione, considerato tale anche dalla giurisprudenza della Corte Cost. ( sent. 25/66) e rappresenta il criterio principale che determina la capacità dei cittadini. L’ eguaglianza, peraltro, come noi qui vorremmo intenderla, non  si esaurisce nella pari capacità giuridica, ma implica una relativa parità di disciplina delle situazioni e dei rapporti. – ( Rivoluzione francese: gli uomini nascono uguali nei diritti e la legge consacra questo principio naturale / Cristianesimo: tutti liberi ed uguali nei diritti in quanto l’uomo, costituito essenzialmente da un’anima, è capace di determinarsi liberamente secondo una legge morale / Antropologia materialistica: non avendo alcun motivo per affermare questa uguale dignità, non ne avrebbe altresì alcuno per negare valore decisivo a quelle evidenti differenze fra uomo e uomo che l’esperienza empirica indubbiamente attesta, né quindi impedire che su di esse si costituisca un regime di privilegi) –

Nella Costituzione italiana il principio è espresso nell’art.3, il quale afferma: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica  rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. L’espressione “ i cittadini hanno pari dignità sociale” è stata interpretata dalla Corte Cost. ( sent. 3/57 etc) nel senso che il principio impone di riconoscere ad ogni cittadino eguale dignità, pur nella varietà delle occupazioni e professioni, anche se collegate a differenti condizioni sociali, con la conseguenza ( sent. 101/67) che sarebbero illegittime tutte le norme legislative le quali collegassero particolari distinzioni, aventi rilievo sociale, a circostanze indipendenti dalla capacità e dal merito. Per intendere le disposizioni dell’art.3 occorre dire che esse, trovandosi in una  costituzione rigida, con penetrante controllo di legittimità costituzionale delle leggi, si rivolgono anzitutto al legislatore. Nel senso non già di dare contenuto diverso alle norme che egli detta, ma di non consentire che queste abbiano diversa efficacia, secondo le persone alle quali si applicano, ossia di ammettere che vi siano nello Stato autorità dotate del potere di dispensare dalla osservanza della legge, quindi superiori alla legge, cioè arbitrarie.  Ma  vi è di più, l’origine storica della affermazione sul principio di eguaglianza non esige soltanto la soppressione del potere di dispensare dall’osservanza delle leggi, ma esclude anche le leggi personali e di classe ( generalità e astrattezza della legge). Questo è il senso che diedero all’uguaglianza quelli che la proclamarono in antitesi con un ordinamento che si fondava sul principio opposto, quale era l’ordinamento delle monarchie assolute, così come esso si presentava, con i suoi relitti di feudalesimo. E tale è il significato che esso conserva tuttora, anche nella nostra costituzione che, connettendolo con l’affermazione della pari dignità sociale di tutti i cittadini e con il divieto di discriminazioni fondate sulle loro condizioni personali, esclude la possibilità che il legislatore riconosca che singoli cittadini o loro gruppi possano avere diritto o essere soggetti ad un trattamento sociale privilegiato, in senso odioso, per effetto di una loro maggiore o minore dignità rispetto ad altri (diverso contenuto) ( Sent. Corte Cost. 3/57, 101/67, 53/57, 159/73, 99/80). Il principio di eguaglianza implica, quindi, l’universalità soggettiva della legge, ossia la sua idoneità a dirigersi a tutti i cittadini. Per escludere regimi di privilegio non sarebbe, però, possibile dichiarare genericamente che il legislatore non può istituire discriminazioni fra i cittadini, poiché una tale statuizione, rigorosamente intesa, significherebbe che la legge deve avere un identico contenuto per tutti, ed equivarrebbe quindi a negare l’esistenza stessa di un ordinamento giuridico. Resta la via di dichiarare che il legislatore può stabilire solo quelle discriminazioni che hanno di mira il bene comune, e non l’utile privato(o il danno) di singoli o di gruppi, e che non presuppongono perciò il riconoscimento di alcuna superiorità o inferiorità in coloro che risultano avvantaggiati o pregiudicati rispetto ad altri.

Molte costituzioni, fra cui la nostra, si preoccupano tuttavia di indicare che certe qualità o caratteristiche o situazioni dei cittadini non possono essere assunte dal legislatore a criteri  di discriminazioni tra loro. Nella nostra esse sono il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. Queste indicazioni non sostituiscono il principio che ogni discriminazione o distinzione sociale deve essere fondata sull’utilità comune, ma servono a garantire meglio l’osservanza di tale principio, rispetto a quelle qualità o situazioni dei soggetti dell’ordinamento che, secondo la coscienza sociale del nostro tempo, appaiono particolarmente insuscettibili di essere assunti a ragione di discriminazioni giuridiche. Occorre precisare che l’art.3 non esige che siano attribuiti a tutti i cittadini, senza discriminazioni fondate sulla qualità che esso indica, gli stessi diritti, ma che siano attribuiti loro, senza le dette discriminazioni, quei diritti fondamentali che la costituzione garantisce, perchè li considera condizioni necessarie per lo sviluppo della persona. L’obbligo di non dare rilievo alle condizioni personali dei cittadini  non può essere inteso nel senso che la legge debba attribuire a tutti, indipendentemente da tali condizioni, gli stessi diritti, dato che da quelle condizioni, ad esempio la salute fisica, può dipendere l’attitudine ad esercitarli; analogamente, il sesso, l’appartenenza ad un gruppo sociale e quantaltro, possono, in certi casi, essere considerati dalla legge come presupposti per svolgere determinate funzioni; in una espressione, cara al Pontefice Giovanni Paolo II rivolta nel caso specifico ai portatori di handicap, considerare tutti i cittadini come “portatori di un’abilità differente”. L’art. 2 ci aiuta a comprendere meglio; tale articolo sinteticamente accenna ai diritti inviolabili ed ai doveri inderogabili che la costituzione regola e garantisce. L’art.3 affermando subito dopo il principio di eguaglianza, chiarisce che, per quanto riguarda i cittadini, il legislatore non può far dipendere il godimento di questi diritti e l’adempimento di questi doveri né dal sesso, né dalla razza, né dalle altre qualità che esso enumera. L’effetto congiunto dei due articoli è dunque quello di attribuire ai cittadini, in condizioni di eguaglianza, i diritti ed i doveri fondamentali, secondo le specifiche norme della costituzione, cioè nel creare, quanto a tale nucleo sostanziale di diritti e doveri, uno status giuridico eguale di tutti i cittadini, che presuppone una capacità giuridica fondamentalmente uguale. Se poi trattasi di qualità diverse da quelle indicate nell’art.3, il legislatore è libero – salvo il limite della non arbitrarietà della legge – non solo per quanto riguarda l’attribuzione o la limitazione o la negazione di diritti non costituzionalmente garantiti, ma altresì per quanto concerne gli stessi diritti fondamentali. Così, non è proibito al legislatore di dare rilievo alle condizioni di mente o più in generale alle condizioni personali dei soggetti, di conseguenza lo stesso potrà limitare la capacità giuridica di questi o intervenire per l’agevolazione degli stessi nell’ambito del mercato del lavoro con regole che li favoriscano. Non potrà però privare alcuno della capacità per motivi politici, perchè questo gli è proibito dalla costituzione. In termini più precisi si può dire che il principio di eguaglianza impone al legislatore di trattare fattispecie eguali in modo eguale e fattispecie diverse in modo non arbitrariamente diverso. E’ ciò che la corte costituzionale ha chiaramente espresso, affermando che l’eguaglianza vieta al legislatore di porre in essere “ una disciplina che, direttamente o indirettamente dia vita ad una non giustificata disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalla natura e dalla qualificazione dei soggetti cui queste vengono imputate” (sent.25/66).

Conviene ora esaminare alcune questioni che derivano dagli specifici divieti di discriminazione contenuti dall’art.3 ed in particolare quello che vieta discriminazioni fondate sulle “condizioni personali e sociali” dei cittadini. Questa norma era stata originariamente interpretata nel senso che essa vietasse di dare rilievo giuridico alle distinzioni sociali e di classe e di emanare leggi personali o del caso concreto. Ma la giurisprudenza della corte costituzionale è andata in senso diverso. In linea di principio la corte ha affermato che non sono vietati trattamenti differenziati fondati sulla condizioni personali e sociali, se riguardano categorie di persone e non singoli soggetti ed obbediscono a criteri di razionalità (sent.70/60; 42/61;114/70;134/78).

In questa giurisprudenza assume rilievo il principio della ragionevolezza nel senso che, se il contenuto di questo principio deve desumersi dai principi del sistema, è da reputare irragionevole ogni disciplina dalla cui applicazione derivino discriminazioni nel godimento dei diritti fondamentali. Ma è evidente che, quando l’esistenza della discriminazione si desuma non dall’esame della disciplina in se stessa, ma da quello degli effetti che essa produce, si scende ad una analisi delle situazioni concrete, dalla quale si può dedurre l’esigenza di rimediare alle sperequazioni eventualmente accertate attraverso una legislazione sociale o di gruppo. Nel senso dato dalla giurisprudenza della corte, l’ultima specificazione dell’art. 3,comma 1 può dunque considerarsi, non certo come una riaffermazione del principio di generalità ed astrattezza, connaturato alla eguaglianza giuridica, ma piuttosto come un passaggio al secondo comma, relativo all’eguaglianza sociale.

Il principio della eguale dignità sociale dei cittadini non esige soltanto l’eguaglianza di fronte alla legge, che costituisce l’oggetto essenziale dell’art.3, comma 1, ma, in quanto si oppone ai privilegi, esige che l’azione dei pubblici poteri si svolga in modo da impedire che certi gruppi di cittadini possano essere privati in fatto del godimento di quel nucleo sostanziale dei diritti che la costituzione garantisce egualmente a tutti, e si trovino quindi in una posizione di inferiorità sociale rispetto agli altri. L’espressione “rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona”, mostra che la norma non intende attribuire ai governanti la funzione di dirigere i cittadini verso delle mete designate, ma di dare ai cittadini la più ampia sfera di autonomia, affinché essi stessi possano operare ed elevarsi. Non si mira dunque ad un livellamento della società, ma all’opposto, alla massima espansione della personalità individuale, cioè alla massima differenziazione fra essere umano ed essere umano, sul fondamento però della eguale dignità per tutti. Gli ostacoli economico-sociali da rimuovere sono quelli che impediscono il pieno sviluppo della persona perchè limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Una società solidale è possibile, quindi se s’impara a riconoscere ed incontrare nell’altro prima di tutto e sempre la persona.

La costituzione non parla,dunque, di eguaglianza di fatto, né impone il compito di creare una tale eguaglianza tra i cittadini, ma semplicemente dice che, se esistono certe condizioni economiche e sociali, le quali di fatto limitino la libertà e l’eguaglianza, queste condizioni debbono essere rimosse. E poiché libertà ed eguaglianza, per la costituzione, non sono astratte e generiche, ma sono quella libertà ed eguaglianza che essa garantisce e determina con le sue norme, ne deriva che l’azione riformatrice deve essere rivolta ad eliminare quelle condizioni che privino “di fatto” i cittadini, o parte di essi, dell’esercizio di quei diritti fondamentali che essa garantisce e che considera necessari e sufficienti per un adeguato sviluppo della personalità (art.2: “ La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo; sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale). Gli ostacoli da rimuovere sono ulteriormente qualificati dalla disposizione secondo cui essi debbono essere tali da impedire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,economica e sociale del paese”. Dove la parola lavoratori deve essere intesa come equivalente a quella di cittadini che svolgono un’attività utile per il paese.

In sintesi, il principio ispiratore dell’art.3,comma 2 è che sia compito della repubblica assicurare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare, in condizioni di pari opportunità, ai benefici derivanti dalla vita associata, intendendo per tali quelli che la stessa costituzione indica con i vari diritti fondamentali che essa garantisce.

Ne deriva che la costituzione considera conforme al bene o utilità comune che tutti i cittadini possano godere di questi diritti. Ora, poiché il principio di eguaglianza consente, come abbiamo visto, quelle distinzioni e discriminazioni che sono conformi al bene comune, ne segue che non si viola questo principio quando la legge distingue e discrimina, allo scopo di attuare il principio posto dal comma 2 dell’art.3. Di qui la legittimità di tutte quelle disposizioni che, creando condizioni di vantaggio per certe categorie di cittadini, poterebbero altrimenti essere considerate in contrasto con il principio di eguaglianza, rigidamente inteso.

Gli stessi articoli della costituzione che riguardano il diritto del lavoro e il diritto sindacale sono forme di attuazione del principio, secondo cui l’ordinamento deve creare condizioni tali che tutti possano godere dei diritti fondamentali, e che a tal fine, possono essere dettate speciali norme indifesa delle categorie più deboli. Ma il diritto sociale di categoria o di classe trova in tale principio, insieme con il suo fondamento, anche il suo limite: e cioè esso è legittimo solo se mira ad assicurare il godimento in condizioni di eguaglianza, dei diritti fondamentali codificati dalla costituzione, mentre sarebbe illegittimo, se mirasse ad altri fini, per esempio ad assicurare l’utile economico di certi gruppi, e ciò anche se ne risultasse una maggiore eguaglianza di fatto che, come tale, non è voluta dalla costituzione, ma appare piuttosto in contrasto con l’esigenza di un pieno sviluppo della personalità di tutti i cittadini. Suggestiva appare l’idea di interpretare i concetti quali “pieno sviluppo della personalità umana” ed “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” come una sorta di concetti aperti o principi valvola, il cui contenuto andrebbe sviluppandosi nel tempo con l’evoluzione della coscienza sociale, soprattutto in un tessuto collettivo come il nostro in cui dovrebbe, ed il condizionale è d’obbligo, essere matura una mentalità d’integrazione per uno stile di convivenza in cui le persone si riconoscono sulla base della pari dignità senza pietismi ed assistenzialismi.

Di fatto la produzione di leggi, in riferimento al contenuto, non può che fare i conti con problematiche sempre più precise e sempre più caratterizzate da una esigenza ed una coscienza sociale in trasformazione. Ma la costituzione, per caratteristiche sue proprie, e per il suo contenuto limita il compito dei poteri pubblici alla “rimozione” degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il raggiungimento dei fini anzidetti perché limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza che la costituzione stessa codifica e garantisce.

Di conseguenza i concetti di tale sviluppo e partecipazione secondo l’art.3, comma 2, non sono affatto indefiniti, ma sono quelli che si desumono dalla costituzione stessa. Ciò detto non si nega che con il passare del tempo il legislatore possa creare, nei limiti costituzionali, nuove forme di sviluppo e di partecipazione, ma in ogni caso bisognerebbe fare i conti con la conformità e l’adempimento del dettato costituzionale per evitare di creare delle norme in contrasto con lo stesso

In realtà se si considera l’art.3 nel suo complesso, appare evidente che il comma 2, è norma strumentale rispetto al primo comma. Questo, riducendolo al significato essenziale, esige l’abolizione di ogni discriminazione non fondata sull’utilità sociale e, in via assoluta, di ogni discriminazione attinente al godimento dei diritti fondamentali basata sulle “qualità soggettive” che esso enumera; il secondo comma vuole che i pubblici poteri operino per eliminare certe condizioni che, di fatto, potrebbero opporsi alle piena attuazione del primo.

Il comma 2 dell’art.3 non è, comunque, l’unica norma da tenere presente per valutare concetti come “interesse generale” o “fini sociali”, né per giudicare della ragionevolezza delle leggi, ma una delle tante, costituzionali ed ordinarie, che l’interprete deve tenere presente a questi fini. Tale comma, congiuntamente al primo e con altre norme costituzionali, ha svolto la funzione di rendere ragione della legittimità di norme che o attuavano fini o principi costituzionali, o proteggevano categorie sociali ritenute più deboli, o miravano a rimediare a gravi squilibri sociali. Si può ricordare come particolarmente espressiva di questa giurisprudenza, la sent. 106/62, nella quale la corte ha affermato che è propria “ dell’applicazione del principio di eguaglianza, la configurazione di ipotesi legislative che, apparentemente discriminatrici nei confronti di categorie o gruppi di cittadini, nella sostanza ristabiliscono l’eguaglianza delle condizioni di queste categorie o gruppi”.

La stretta connessione fra l’art.3 ed il diritto al lavoro è evidente alla luce del concetto di “pieno sviluppo della personalità umana” congiunto  al riferimento diretto di “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori”.   In particolare uno degli aspetti principali dell’obbligo di azione sociale che il comma 2 dell’art. 3 impone ai pubblici poteri è indubbiamente quello di consentire ai cittadini di lavorare, essendo il lavoro da una parte il mezzo per assicurare loro sussistenza e benessere, dall’altro una delle principali forme di estrinsecazione della personalità umana. Il concetto di lavoro nell’art.4 non è univoco. La corte costituzionale ha da tempo riconosciuto (6/56;14/64;61/65;7/66;111/67;41/71) che questa norma garantisce anzitutto un fondamentale diritto di libertà, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa e, in secondo luogo, impone ai pubblici poteri di adoperarsi per la creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini. L’art 4, quindi, rivolgendosi a tutti i cittadini dimostra che esso si deve intendere sia come diritto di libertà sia come diritto sociale, cioè come pretesa ad ottenere lavoro. Sotto questo profilo la corte costituzionale è stata chiara e precisa( 194/76): “ Il diritto al lavoro, garantito dall’art.4, si traduce non in una pretesa giuridica del singolo soggetto ad ottenere un determinato posto di lavoro, bensì nella generica possibilità di avere accesso, concorrendone i requisiti, ai posti disponibili, e nell’obbligo, pure genericamente imposto al legislatore, di realizzare un ordinamento che renda effettivo questo diritto, attraverso l’adozione di concrete ed idonee misure per l’assicurazione dell’occupazione e la creazione di posti di lavoro”.Quello che non dice la costituzione è quali debbano essre tali misure; il legislatore quindi può adottare la politica che crede per assicurare il pieno impiego, nei limiti della costituzione (norme sul collocamento). In uno stato libero( come il nostro) il giudizio se l’attività o la funzione  scelta concorra (art.4 comma2) al progresso materiale o spirituale della società, spetta al cittadino e non al potere pubblico. Il solo giudizio che lo stato possa dare riguarda la possibilità del soggetto di lavorare, perchè dall’esito dipende, quando il soggetto sia privo di mezzi, il riconoscimento o meno del diritto all’assistenza ( art. 38: “ Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale( L. 68/99). Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo stato. L’assistenza privata è libera  .