Mobbing

 

Il termine “mobbing” venne usato per la prima volta dallo scienziato, nobel per la medicina nel 1973, Konrad Lorenz in collaborazione con Nikolaas Tinbergen e Karl R. von Frisch in etologia, per indicare il comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l’intento di escludere un membro del gruppo. In ornitologia, in particolare, indicava il comportamento degli uccelli che volessero espellere dal loro territorio un intruso della stessa specie o un uccello predatore, nel caso di piccoli volatili.

Più tardi uno psicologo tedesco, Heynz Leymann, usò lo stesso termine per indicare una situazione simile sul posto di lavoro. Nell’arco delle due decadi di studio che dedicò al problema classificò ben quarantacinque comportamenti ostili, vero e proprio terrorismo psicologico con i connotati netti di un comportamento non etico, che statisticamente per rientrare nella definizione di mobbing si sarebbero dovuti ripetere almeno una volta alla settimana per sei mesi.
L’etimo della parola mobbing deriva dal latino vulgus, vale a dire “il movimento della gentaglia, il fuoco plebeo”. Mob in inglese vuole dire “folla, moltitudine disordinata” e in un’accezione dispregiativa “plebe”; il verbo to mob invece vuol dire “aggredire, assalire, malmenare”. Il termine vuole quindi esprimere la situazione di accerchiamento da parte del gruppo e la forte pressione ed il terrore psicologico che può insorgere nella vittima.

Il bossing è definibile come una forma di mobbing “dall’alto” (mobbing von oben, nella letteratura in tedesco sull’argomento), ossia attuato non da colleghi di lavoro (o compagni di scuola, di squadra sportiva ecc.), bensì da un superiore gerarchico, come ad es. il capufficio, il dirigente, il manager, il direttore tecnico della squadra, l’ufficiale responsabile di un reparto militare o, più in generale, da una direzione aziendale. Esso è in sostanza una forma di persecuzione attuata attraverso una accorta strategia di vessazioni psicologiche e disciplinari, volta a costringere il dipendente sgradito all’autolicenziamento. La ratio di questa strategia è evidentemente nel vantaggio di potersi liberare di un dipendente o sottoposto, senza dover sottostare alle norme ed ai procedimenti spesso lunghi ed onerosi previsti dal diritto del lavoro o da accordi sindacali, o semplicemente dalle clausole contrattuali. Quasi tutti i moderni ordinamenti giuridici si sono dotati di una normativa specifica sul mobbing “dall’alto”, o bossing, e spesso la legge o gli accordi sindacali prevedono i relativi strumenti e procedure operative a tutela di chi ne è vittima. La letteratura giuridica sull’argomento è ormai sufficientemente vasta ed articolata, e anche la casistica comincia ad essere studiata dal punto di vista giuridico e psico-sociologico con una certa sistematicità.

In realtà molti dei comportamenti in cui il mobbing si sostanzia nell’ambito delle scienze umane e della medicina, in giurisprudenza potrebbero risultare irrilevanti e di difficile prova allorché siano costituiti da comportamenti atipici e non illegittimi (ad es.: ironie su tic, handicap, abbigliamento ecc.). Taluni comportamenti difatti sono comuni nei rapporti umani, sebbene la necessità di procurare i mezzi di sostentamento per sé e la propria famiglia forzi le situazioni rendendo i tentativi di estromissione dal posto di lavoro di particolare gravità. Non esiste però nel nostro ordinamento un obbligo di socializzazione e rispetto reciproco, e non sembra opportuno che i giudici possano emettere in questo campo giudizi più che altro di natura morale. C’è da dire però che tali comportamenti possono assumere una portata giuridicamente rilevante quando siano reiterati nel tempo e di gravità esagerata, esasperati e volti inequivocabilmente all’isolamento del mobbizzato anche al di fuori di uno specifico agire illegittimo.
Ai fini dell’obbligo della tutela delle condizioni di lavoro, l’eventuale connivenza del datore di lavoro comporta inoltre a norma dell’art. 2087 cod. civ. la responsabilità dell’imprenditore, come già stabilito nel campo delle molestie sessuali, qualora ne sia venuto a conoscenza.
Tutti quei comportamenti che denotano inequivocabilmente un uso sbagliato e spropositato del potere direttivo del datore di lavoro e comunque ne mettano in luce gli intenti discriminatori e persecutori (ad esempio: licenziamenti, demansionamenti, mancata osservanza dell’Ordine di reintegrazione nel posto di lavoro disposto dal giudice del lavoro, ecc.) sono puniti a norma del codice civile ed in taluni casi anche penale. Dal punto di vista civile è dunque già presente una tutela contro il bossing, per via giurisprudenziale e legislativa.

In Italia manca una legislazione organica sul tema, ed è quindi necessario basarsi più che altro sugli orientamenti giurisprudenziali che a partire dal 1999 hanno pioneristicamente concorso a darne una definizione utile ai fini delle ragioni della vittima, basandosi su fattispecie già previste dal nostro ordinamento giuridico.

La storia della tutela del lavoratore “mobbizzato” inizia, in Italia, nel campo civilista e giuslavorista.
La prima sentenza a stabilire il risarcimento per il danno psichico derivante da comportamenti espressamente qualificati come “mobbing” è stata emessa dal giudice Ciocchetti, Tribunale di Torino, Sez. Lavoro nel 16-11-1999.

Il giudice ha ritenuto che tale definizione potesse essere data, nello specifico, ai comportamenti vessatori ed umilianti operati dal capo reparto nei confronti della lavoratrice ricorrente. I problemi psichici derivanti dalla situazione insostenibile (agorafobia, attacchi di panico e depressione) erano attestati da regolari certificati medici e oggetto di esposto da parte della rappresentanza sindacale aziendale, oltre a non trovare precedenti riscontri nella storia personale della donna. Nello specifico il giudice ha ritenuto l’azienda responsabile, condannandola ad equo risarcimento del danno biologico subito dalla lavoratrice. Partendo da una definizione del termine inglese, e la sua origine etologica il giudice ha poi osservato quanto simili siano determinati comportamenti messi in atto sul posto di lavoro: “spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.
Inoltre aveva considerato il “mobbing” come “fatto notorio”, ossia come fatto “acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio”.
La condanna è avvenuta per il combinato disposto degli articoli 32 cost. e 2087 cod. civ. ritenendosi il datore di lavoro responsabile per mancata tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro. Il giudice in quella sentenza aveva riscontrato un nesso di causalità tra l’ambiente di lavoro e il disagio psichico provato dalla paziente, confermato anche dal repentino miglioramento dopo la risoluzione del rapporto di lavoro.
Altra importante sentenza ai fini della definizione di “mobbing” è della Cassazione civile Sez. lavoro, 8 gennaio 2000, n. 143.

In quella sentenza si definisce nuovamente il concetto di mobbing, inteso come: “quel fenomeno che indica l’aggredire la sfera psichica altrui mutuato dal linguaggio usato in altri paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi particolari”.

Qui la Corte dichiara la necessità del datore di lavoro di risarcire il lavoratore, qualora ne derivi un danno alla sua salute e integrità fisica e psichica, ravvisando però la necessità di un nesso tra comportamento del datore di lavoro e disagio provato dal prestatore. Questo vuol dire che la prova del nesso è messa a carico del lavoratore, pur ammettendo la difficoltà di questo genere di prova. Nella stessa sentenza si stabilisce che un’accusa infondata di mobbing può costituire giusta causa di licenziamento. Il Tribunale di Como stabilisce poi, con la sentenza n. “L’individuazione in concreto dei comportamenti che integrano il mobbing, in quanto volti a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato (il quale può riportare anche conseguenze negative di ordine fisico), deve essere compiuta in base ai risultati della psicologia del lavoro internazionale e nazionale. Questo fenomeno può causare un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, ogniqualvolta l’aggressione alla sfera della dignità del lavoratore non possa ricevere una diversa qualificazione risarcitoria: in tal caso, il danno potrà essere liquidato in via equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., in base ai parametri del tempo e della retribuzione.”Il Tribunale di Milano, inoltre, con la sentenza 11-02-2002 segna il confine tra quei comportamenti del datore di lavoro che possono o non possono costituire mobbing: “Con l’espressione “mobbing” si intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile. Non costituiscono, pertanto, “mobbing” quei comportamenti del datore che sono giustificati o da oggettive situazioni aziendali di dissesto (come la richiesta di restituzione di una costosa macchina aziendale), ovvero da gravi inadempimenti contrattuali del dipendente.”
Il Tribunale di Como infine ha qualificato come <mobbing aziendale> un insieme di atti apparentemente neutri e come animus nocendo quell’elemento psicologico che mira a ledere la psiche del mobbizzato e tende ad espellerlo dalla comunità, dando al fenomeno una connotazione fortemente collettiva (in connessione con i natali etologici del termine).
Ad ogni modo la giurisprudenza ha recepito determinate fattispecie inerenti al mobbing ed al bossing, basandosi su norme di legge espressamente previste. Queste possono essere:
1. molestie sessuali, operate dal datore di lavoro o dai suoi stretti collaboratori e sempre puniti a norma dell’art. 2087 cod. civ., qualificabili come inadempimento contrattuale del datore di lavoro (Sent. Corte Cass. n. 143 dell’8/01/2000);

2. illegittime dequalificazioni professionali, demansionamenti, svuotamenti di funzioni e riduzione all’inattività, oltre ai mancati riconoscimenti dei diritti derivanti dalla qualifica del lavoratore sono punibili in base all’art. 2103 cod. civ. La prima sentenza ad occuparsi di un simile caso di mobbing è sempre stata emessa dal Tribunale di Torino, nel 1999 ed il risarcimento è stato deciso in via equitativa dal giudice ex. art. 1226;

3. esercizio illegittimo reiterato del potere gerarchico del datore di lavoro con comportamenti persecutori ed atti ritorsivi e discriminatori, in quanto tali atti sono dettati da intenti e motivi illleciti e violano gli obblighi di correttezza e buona fede;

4. pretese sproporzionate poste nei confronti del lavoratore, anche a fronte di un organico inadeguato e sebbene il prestatore sia stato disponibile ad assumersi tale carico lavorativo (vuoi perché in una posizione economica fortemente svantaggiata) considerato quale violazione degli artt. 2087 cod. civ, 32 e 41 Cost.;

5. comportamenti ingiuriosi, a cui la giurisprudenza ha riconosciuto tutela a norma dell’art. 2059 cod. civ. come danno morale, e nel caso in cui sia integrato il reato ex art. 594 cod. pen. Altre volte, nel caso che le ingiurie ripetute abbiano integrato un comportamento delittuoso e recato danni all’integrità fisica e morale del lavoratore è stata riconosciuta la responsabilità del datore di lavoro ex artt. 2087 cod. civ. e 2043 cod. civ. in caso di ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
Dunque è di tutta evidenza come la recente giurisprudenza sia orientata ad ammettere il risarcimento del danno biologico e patrimoniale, ed anche eventualmente del danno non patrimoniale sofferto dalla vittima per atti normalmente riconducibili all’ampia definizione di mobbing ed alle sue differenti tipologie.

 

Estratto dalla Voce di Robin Hood a cura di Denise Farinato

 

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