Supercondominio

 

L’espressione “supercondominio” viene comunemente accolta per indicare il fenomeno, in parte nuovo e sfornito di un’adeguata elaborazione giuridica, che si verifica quando più edifici, ciascuno autonomo e a sua volta in regime condominiale o anche in proprietà singola, mantengano tuttavia parti o servizi destinati all’uso comune.

Tali parti o servizi comuni necessitano di una gestione unitaria, separata da quella dei singoli edifici; il problema più rilevante che si pone, peraltro, è quello di stabilire se le entità comuni siano assoggettate al regime ordinario della comunione, ovvero a quello del condominio. Le implicazioni pratiche che si collegano alla soluzione del problema sono evidenti ed attengono, per ricordarne alcune, alla gestione stessa delle cose e dei servizi, al loro uso, alla disciplina dell’assemblea e delle delibere, alla divisibilità ed al trasferimento.

Dalla applicazione delle norme sul condominio deriva la conseguenza che i condomini utilizzano la cosa comune come comproprietari e non come titolari di un diritto di servitù. Pertanto i condomini possono realizzare aperture nei muri perimetrali che delimitano il passaggio tra gli edifici per accedervi, nei limiti dell’art. 1102 codice civile (Cass. Sez. II, 16 marzo 1993, n. 3102).

Va poi osservato, che una tale situazione può verificarsi sia in seguito allo scioglimento di un condominio preesistente che venga diviso, sia alla costituzione originaria di un complesso che preveda il godimento in comune di alcuni beni.

Indubbiamente la disciplina condominale, che presenta caratteri di specialità rispetto a quella della comunione ordinaria, è preordinata per regolare il fenomeno di edifici divisi per piani sovrapposti, a cui siano in comune le entità indicate dall’art. 1117, Codice civile?2. Pertanto, pur nel caso di edificio “unico”, ma in cui ciascuna delle parti in proprietà esclusiva non fruisca di enti comuni e possa essere riguardata come funzionalmente autonoma in relazione alle particolarità costruttive, non v’è ragione di applicare la disciplina condominiale, mentre non si può escludere che tra loro permangano zone, che, pur essendo comuni, non realizzano una spiccata interdipendenza funzionale e quindi sia sufficiente sottoporle, per una corretta gestione, alle ordinarie regole della comunione.

In altre parole, tali ultime parti comuni non impediscono che gli edifici siano utilizzabili nella misura più completa e nella loro piena autonomia senza necessità di provvedere ad una gestione separata e continuativa di esse.

Detti principi, che escludono l’applicabilità, nei casi indicati, delle norme sul condominio, sono stati invocati nell’ipotesi in cui l’edificio sia diviso in due parti distinte e funzionalmente autonome da un muro interno verticale, dalle fondamenta al tetto, e in comune cada solo il muro divisorio.

La Corte di cassazione, in motivazione della sentenza indicata sub, richiamando del resto un proprio precedente (Cass. 13 maggio 1949, n. 1177), ha osservato, come l’unicità strutturale del fabbricato sia certamente un “elemento sintomatico” ma non determinante per affermare in concreto l’esistenza del condominio, se la divisione verticale in due parti operata dal muro di separazione mette in evidenza due corpi di fabbrica ciascuno godibile senza ulteriori interferenze.

Gli stessi criteri guida sono stati utilizzati per escludere l’esistenza del condominio (e quindi l’applicabilità delle relative presunzioni ex art. 1117, Codice civile) al caso, che la stessa Corte suprema ritiene essere “un caso limite”, dato addirittura dalla parziale compenetrazione di due corpi di fabbricato, ma sforniti di elementi strutturali o di servizi in comune, tanto che i due corpi di fabbrica potevano essere riguardati come indipendenti tra di loro, intendendosi tale indipendenza come “autonomia in senso statico e funzionale” (Cass. Sez. II, 20 ottobre 1984, n. 5315).

Ribadisce, poi, la Corte di cassazione, che, per potersi parlare di autonomia di edifici occorre che il risultato della divisione dia luogo a costruzioni munite di una loro autonomia strutturale (Cass. Sez. II, 7 agosto 1982, 4439), quand’anche restino in comune tra gli originari partecipanti alcune delle cose indicate nell’art. 1117, Codice civile; si esclude, pertanto, che la semplice autonomia dal punto di vista amministrativo e gestionale possa dar luogo ad edifici autonomi se la separazione del complesso non possa attuarsi senza interferire nella sfera giuridica di altri condomini.

Le osservazioni che precedono consentono di precisare meglio la figura del supercondominio, ove, come si è accennato in apertura, convivono edifici autonomi nel senso sopra indicato, e parti comuni ad essi, in quanto legate da un rapporto di accessorietà necessitata dalla configurazione dei luoghi (androni, passaggi) (Cass. Sez. II, 16 dicembre 1980, n. 6509; Cass. sez.II, 8 agosto 1996, n.n.7286), ovvero risultanti dalla destinazione ad assolvere un servizio comune impressavi dalla volontà dei partecipanti (Cass. Sez. II, 10 novembre 1976, n. 4139); i proprietari, infatti, possono considerare più fabbricati, costituenti un unico corpo ed aventi in comune tetto fognature ed altro, un solo complesso immobiliare predisponendo ed approvando un’unica tabella condominale; nulla vieta che l’accordo riguardi solo talune porzioni rimaste in comune dopo la separazione.

Sebbene dunque le norme del condominio trovino di regola applicazione nel caso di edifici divisi per piano, le stesse regole disciplinano anche il caso in cui più edifici contigui, ma autonomi, “abbiano o creino servizi destinati permanentemente ed oggettivamente all’uso ed al godimento di tutti; il fatto stesso che una o più cose o servizi risultino comuni rispetto ad una pluralità di proprietari rende applicabile la disciplina condominiale (Tribunale Milano Sez. VIII, 24 giugno 1991; Appello Milano Sez. I, 25 settembre 1992).

Fra i singoli edifici deve dunque esistere e permanere una compenetrazione funzionale di parti, tali da determinare una contitolarità necessaria del diritto di proprietà sulle parti comuni in relazione alla specifica funzione di esse di servire per l’utilizzazione e il godimento delle parti dell’edificio o edifici oggetto di proprietà individuale, situazione che si verifica anche se le opere comuni sono strutturalmente distaccate dai singoli edifici (Cass. Sez. II, 16 dicembre 1980, n. 6509).

In tali presupposti, la giurisprudenza ritiene applicabili le norme sul condominio e non quelle sulla comunione ordinaria e, conseguentemente, che si formi per queste cose un ente collettivo di gestione con lo scopo di regolare la formazione della volontà del gruppo ed i rapporti interni dei partecipanti.

Il fondamento normativo della disciplina viene individuato negli artt. 61 e 62, disp. att., Codice civile che, prevedendo la possibilità dello scioglimento del condominio quando l’edificio possa essere diviso in parti che abbiano i caratteri degli edifici autonomi, nonché la costituzione di condomini separati consente lo scioglimento anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate nell’art. 1117, Codice civile.

In particolare, la formula normativa del primo comma dell’art. 62 (“restano in comune fra gli originari partecipanti”) allude, da un lato, al fatto che continua ad applicarsi nella nuova situazione nata dallo scioglimento del condominio originario la stessa disciplina giuridica condominiale propria di questo, dall’altro, che i partecipanti all’originario condominio sono anche i partecipanti del nuovo ente destinato a sovrapporsi (supercondominio) ai condomini separati (subcondomini).

Deriva pertanto da tali principi, che lo scioglimento del supercondominio con la divisione delle parti comuni e relative delle singole porzioni ai singoli condominii risultanti, è assoggettato alla norma di cui all’art. 1119 Codice civile; è altresì valido il patto contenuto nel regolamento contrattuale, che vieti senza limiti di tempo la divisibilità delle parti comuni, non essendo applicabile l’art. 1111 Codice civile dettato in tema di comunione. In tal caso si richiede per la divisione il consenso di tutti i condomini (Tribunale Roma, sez. IV, 17 aprile 1997).

In effetti, la ratio che giustifica il permanere della situazione condominale continua ad essere la stessa, e cioè, che le porzioni di piano, i piani, ovvero gli edifici in proprietà single, non possono essere utilizzati o meglio goduti, in difetto delle cose o servizi che permangono necessariamente comuni, o a cui sia impressa la durevole destinazione a soddisfare bisogni comuni.

Sembra anche errata, allora, la terminologia, talvolta adottata, che individua il “supercondominio” in un “condominio tra i condominii”, mentre in realtà il condominio delle parti per così dire “intercomuni” trova i propri partecipanti non negli amministratori dei singoli condominii (salve le deleghe che possano essere loro conferite) ma negli stessi proprietari delle porzioni singole (Cass. Sez. II, 5 gennaio 1980, n. 65; Cass. Sez. II, 16 marzo 1981, n. 1440). E’ stata ritenuta radicalmente nulla la clausola del regolamento contrattuale la quale prevedeva che partecipassero all’assemblea del supercondominio gli amministratori dei singoli condominii, anziché tutti i comproprietari degli edifici, per contrarietà a norme imperative concernenti la composizione ed il funzionamento dell’assemblea (Cass. Sez. II, 28 settembre 1994, n. 7894; Appello Milano, 14 novembre 1997, n. 3218); conseguentemente è nulla la delibera che sia stata adottata nella assemblea formata dai soli amministratori, pur se conforme al regolamento, per violazione della norma, inderogabile per legge, di cui all’art. 1136, sesto comma, Codice civile (Cass. sez. II, 13 giugno 1997, n. 5333). Secondo altra decisione (Tribunale Napoli Sez. X, 12 ottobre 1994, n. 8111), la cui complessa motivazione merita lettura, non solo la previsione contenuta nel regolamento contrattuale circa la partecipazione dell’amministratore del singolo condominio all’assemblea del supercondominio non è inficiata da alcuna nullità ma l’amministratore può in tal caso partecipare alle riunioni dell’assemblea supercondominiale senza necessità di approvazione da parte dell’assemblea del condominio di riferimento. Sorgono peraltro problemi in ordine ai poteri di rappresentanza che l’amministratore può esercitare nella detta assemblea, in quanto l’amministratore è pur sempre mandatario degli amministrati e non potrebbe creare dei vincoli a loro carico senza una espressa delega. Secondo la decisione riferita, l’amministratore potrebbe partecipare all’assemblea supercondominiale senza delega solo nei limiti in cui gli argomenti da trattare rientrassero nelle attribuzioni conferite dalla legge ex art. 1130 Codice civile, ma la stessa decisione non solo esclude che il potere dell’amministratore si estenda sino ad approvare delibere che comportino oneri di spesa ma solleva dubbi sugli stessi poteri di rappresentanza, allorché la decisione riguardi il miglior godimento delle entità supercondominiali (la cui disciplina è fuori dai suoi poteri). In definitiva, anche ove la partecipazione dell’amministratore alle assemblee supercondominiali sia previsto dal regolamento contrattuale, appare assai problematico stabilire i limiti entro i quali il medesimo possa validamente obbligare i propri condomini. Si afferma ancora nella motivazione della sentenza in esame, che permane nei singoli condomini il diritto di impugnare le delibere assunte in violazione dei loro diritti, in quanto la volontà espressa dall’amministratore non sia conforme alla delega conferita.

In applicazione del principio per cui i partecipanti del supercondominio non sono i complessi condominiali che lo costituiscono (“lotti”), ma pur sempre i singoli condomini, e salva diversa regolamentazione regolamentare, si è affermato che, per verificare la regolare costituzione dell’assemblea e la validità delle delibere del supercondominio, deve riconoscersi a ciascun condominio il diritto di votare in ragione dei millesimi di proprietà che competono al bene esclusivo. Appare d’altra parte pacifico che l’assemblea, la quale sia chiamata a deliberare su beni e servizi comuni del supercondominio, sia formata da tutti i condomini che ne fanno parte e trovino applicazione le disposizioni dell’art. 1136 Codice civile in ordine alla convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze; deve conseguentemente dichiararsi la nullità della deliberazione relativa alla divisione del servizio di portierato e al licenziamento del portiere assunta dalla assemblea formata dai condomini di un solo fabbricato, mentre il servizio era comune anche ad altro edificio facente parte del complesso i cui condomini non erano stati convocati (Cass. sez. II, 8 agosto 1996, n. 7286). Per procedere alla determinazione dei millesimi (che esprimono la misura della partecipazione dei singoli alle cose comuni supercondominiali) occorre preventivamente stabilire quale sia la partecipazione di ciascun “lotto” (cioè singolo condominio) alle spese comuni supercondominiali (fatto uguale a mille il valore complessivo delle cose e dei servizi comuni supercondominiali), quindi all’interno dei singoli lotti determinare proporzionalmente il valore delle singole proprietà (Tribunale Monza 25 maggio 1991 nel caso esaminato dalla sentenza il supercondominio era formato da cinque lotti; al lotto A erano assegnati al fine di ripartire le spese 300 millesimi, al lotto B 150, al lotto C 200, al D 210, al lotto E 120, al lotto “Centrale” 20; il Tribunale ha stabilito che i millesimi da assegnare ai singoli ai fini della partecipazione in assemblea debbano essere proporzionati al valore millesimale di ciascun lotto; quindi, per il lotto A, il valore della proprietà individuale deve essere rapportato a 300, per il lotto B a 150 e così via).

La presunzione legale di comproprietà stabilita dall’art. 1117, Codice civile è applicabile per analogia anche quando non trattasi di parti comuni di edificio diviso per piani, bensì di parti comuni di edifici limitrofi, aventi le caratteristiche di edifici autonomi ma destinati permanentemente alla conservazione ed all’uso degli edifici stessi (Tribunale Catania, 25 gennaio 1982).

Il principio ha avuto applicazione in tema di androni, cortili, pozzi di luce che trovansi tra edifici strutturalmente autonomi ed appartenenti a proprietari diversi e siano obiettivamente ed attualmente destinati a dare aria e luce ai fabbricati che li fronteggiano (Cass. Sez. II, 29 maggio 1978, n. 2309); portoni e scale, precisandosi che la presunzione di comunione può essere vinta dalle risultanze del titolo.

Va però osservato, che se nell’ambito di un supercondominio, i boxes e i loro viali di accesso appartengono a proprietari dei diversi edifici, non si può senz’altro presumere che di detti viali di accesso siano di proprietà comune a tutti i partecipanti del comprensorio, dovendosi invece presumere fino a prova contraria, che dette entità appartengano alla comunione tra i proprietari dei boxes; di conseguenza, l’amministratore del supercondominio non è legittimato ad agire per ottenere che i viali di accesso rimangano sgombri di veicoli (fra l’altro nella specie, boxes e rispettivi accessi erano posti nel sottosuolo, mentre il supercondominio comprendeva solo parti in superficie) (Tribunale Milano Sez. VIII, 27 giugno 1988, n. 6096).

La suprema Corte, infine, riconoscendo che se un impianto di riscaldamento è posto al servizio di più edifici, legittimamente occorre far riferimento ai principi che regolano il condominio, e non la comunione ordinaria, per disciplinare la fattispecie, ha affermato, che, di conseguenza, il patto di indivisione contenuto nel regolamento contrattuale è pienamente valido e non incontra il limite di tempo previsto nel massimo di 10 anni per la comunione ordinaria (art. 1111, secondo comma, Codice civile); altre volte, invece, ha affermato, che, quando un complesso residenziale composto da più palazzine singolarmente erette in regime condominiale disponga di manufatti e spazi in godimento comune, questi si devono ritenere soggetti alla disciplina della comunione e non del condominio ai fini della nomina di un amministratore dei beni comuni (Cass. Sez. II, 20 giugno 1989, n. 2923).

Va ancora rilevato che non assume nessuna rilevanza giuridica lo scioglimento di fatto di condominio complesso; pertanto, prima dello scioglimento, gli interessi di cui siano portatori i condomini che aspirano alla divisione devono trovare sfogo in sede di assemblea condominale ed eventualmente in sede giuridica a seguito all’impugnazione di delibera che abbia leso taluni interessi a scapito di altri (Tribunale Roma, 2 giugno 1980).

La giurisprudenza, nel ribadire che le norme relative al condominio si applicano anche al caso di più edifici autonomi e di diversa proprietà che mantengano in comune porzioni o servizi, ha affermato che il singolo condomino non può, staccandosi dall’impianto di riscaldamento centralizzato, sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese della sua conservazione (Tribunale Milano Sez. VIII, 21 marzo 1991, n. 2222).

Quanto alla organizzazione interna del supercondominio, deve considerarsi perfettamente legittima la nomina di consiglieri del condominio complesso anche se tale carica non è prevista dal regolamento, in quanto la istituzione di un organo utile e per di più non comportante oneri rappresenta esercizio legittimo della discrezionalità dell’assemblea condominiale (Tribunale Milano Sez. VIII, 6 aprile 1992).

Ovviamente, i partecipanti al supercondominio devono nominare un amministratore che assicuri la gestione delle cose comuni e al quale soltanto compete di pretendere il pagamento dei contributi relativi alla gest(Cass. Sez. II, 4 maggio 1993, n. 5160)ione della centrale termica del supercondominio. Se un condomino, opponendosi a decreto ingiuntivo relativo alle spese di centrale termica facente capo ad un supercondominio, eccepisca il difetto di legittimazione attiva dell’amministratore del proprio condominio, non ha la necessità di integrare il contraddittorio con l’amministratore del supercondominio (Cass. Sez. II, 29 settembre 1994, n. 7946).

All’amministratore delle parti comuni di un supercondominio spettano tutte le facoltà inerenti a tale gestione, tra cui la legittimazione ad agire in giudizio senza necessità di delibera assembleare nei casi in cui tale potere è riconosciuto all’amministratore del condominio, e di pretendere la consegna dei libri contabili dal precedente amministratore (Tribunale Roma Sez. III, 4 luglio 1994, n. 10405).

Tutto ciò premesso, nella fattispecie in esame, dato che è stato collettivamente sottoscritto dai proprietari un regolamento condominiale in cui sono stati approvati i criteri di ripartizione delle spese è legittima la deroga ai criteri di riparto previsti dall’art. 1123 c.c. poiché non rientrante tra le norme inderogabili previste dall’art. 1138 c.c.

Qualora quindi parte dei condomini volessero modificare alcune norme del regolamento è necessaria l’approvazione unanime dei proprietari, in quanto tali clausole stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese e, dunque, incidono sulla sfera soggettiva dei condomini stessi.

 

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